NOTE IMPORTANTI RILASCIATE DALLA
SOVRINTENDENZA
ARCHEOLOGICA DEL PIEMONTE
Il reperto ritrovato all'interno della chiesetta
titolata ai Santi Lorenzo e Giobbe di Mazze’ non risulta essere una lapide marmorea, bensì un titulus, lavorato in epoca imperiale.
(Maggio 2021)
Dopo aver descritto la
titolata ai
Santi Gervasio e Protasio
e quella dedicata a
proseguo la rassegna
trattando della cappella agreste dei
E’ stato accertato dalla
Sovrintendenza Archeologica del Piemonte,
che in alcune zone prospicienti la Dora,
comprese nei
Comuni di Mazzè
e
Villareggia,
esistesse in antico
un lavaggio di placers auriferi
(strati ghiaiosi-pietrosi contenenti zone in cui era possibile rintracciare pepite o lamelle d’oro)
del tutto simili a quelli della Bessa di Mongrando.
Non si può affermare con certezza,
come sostenuto dal
Pipino
e da altri autori,
Mazzè
siano quelle citate da
Strabone,
però la descrizione fatta dal
famoso geografo greco,
calza perfettamente con la morfologia della zona
e l’ipotesi è tutt’altro che peregrina.
L’esistenza delle
miniere d’oro,
già sfruttate in
epoca
Salassa
e poi successivamente in
epoca romana,
congiuntamente
alla presenza di un
guado sul fiume,
probabilmente sostituito
nel
tardo Impero
da un
ponte,
spiegano la nascita del borgo
celta-ligure
di
Mattiacos,
nome poi mutato in quello di
Mattiacus
al tempo della
colonizzazione latina.
Gli scavi
effettuati nelle regioni
e nei pressi della chiesetta,
dimostrano che in origine
il paese
era localizzato nella
pianura alluvionale
e la popolazione
dedita
all’estrazione dell’oro
e poi,
esauritesi il giacimento,
alla coltivazione della vite
ed al cabotaggio sulla Dora,
a quel tempo navigabile sino ad Ivrea.
Questo lungo preambolo
spiega il motivo
per il quale
fu eretta una chiesa
in un luogo cosi isolato,
e perché quella dei
è considerata
la parrocchia più antica di
Mazzè.
Non devono trarre in inganno
le sue dimensioni ridotte,
dovute al perpetuarsi
della tradizione pagana,
recitante che un tempio
era la casa di Dio
e non quella dei fedeli,
che potevano benissimo assistere alle funzioni
standosene all’aperto.
L’antichità della chiesa,
probabilmente risalente al
IX secolo,
è testimoniato,
oltre che dal recentissimo ritrovamento
nei suoi pressi
di
tracce di costruzioni,
forse d’epoca longobarda,
dall’orientamento
est - ovest
e da tratti della muratura perimetrale,
edificati con materiale
di risulta
d’origine romana.
La presenza di due fondazioni,
sempre d’origine
antica,
a prolungamento
verso ovest
dei muri laterali,
sostengono l’ipotesi
che un tempo
questa non fosse una chiesa
ma che svolgesse le funzioni
d’edicola
funeraria,
come testimonia
del II secolo d.c.,
ritrovata al suo interno una decina d’anni fa,
(Tale ipotesi risulta superata dopo
il nuovo indirizzo recentemente formulato dalla sovrintendenza archeologica del Piemonte sulla funzione svolta in antico dal reperto ritrovato all’interno della chiesetta titolata ai Santi Lorenzo e Giobbe di Mazze’
dall'associazione Francesco Mondino nell’anno 1992.)
Per maggior comprensione
credo sia utile attingere a quanto riferito
da
F. Mondino,
sempre a proposito di questa chiesa,
nella sua opera
“Cenni sull’architettura Sacra in Mazzè “
“ Abbiamo, invece,
importanti notizie
trasmessaci da un
documento
redatto a
Borgomasino
il 5 Gennaio 1349
nel quale questa chiesa
è unita a quella di
San Gervasio.
In quel giorno,
il priore Oberto Francesco,
Vicario del Vescovo di Ivrea ecc…………
Nell’ambito delle indagini
che egli stava conducendo,
fu informato,
per fide dignitas personas,
sullo stato della chiesa di
San Gervasio
e di quella di
San Lorenzo.
Venne così a conoscenza
che quest’ultima si trovava
in precarissimo stato di conservazione,
nonostante che in passato fosse stata preposta alla cura delle anime,
per l’esistenza,
nel suo territorio,
di una popolazione “
Proseguendo:
“ Il documento,
è di importanza storica,
perché,
tra l’altro,
c’informa
che questa popolazione
si trasferì,
poi,
a causa dei pericoli delle guerre,
nella parrocchia di
Mazzè,
dove continuò a vivere costruendo nuove abitazioni e
formando nuove famiglie”
E’ da notare
che gli ultimi trasferimenti
avvennero
in tempi relativamente moderni,
perché a
Casale,
si tramanda ancora
la credenza
che i fondatori del paese,
edificarono le loro case
lungo
dopo aver abbandonato
la pianura adiacente a
San Lorenzo.
Dopo l’abolizione
della parrocchia
e l’assommarsi
delle funzioni di rettore
di
San Gervasio
e
di
San Lorenzo
nella persona del
prete Giovanni,
a quel tempo parroco di Mazzè,
la chiesetta decade rapidamente
diventando ricovero
di romiti e di vagabondi,
tanto che bisogna giungere sino alla fine del
XVIII secolo,
perché il tempietto sia nuovamente in grado di ospitare delle funzioni religiose.
Nel 1792,
don Giuseppe Antonio Borga,
parroco dal
1784 al 1818,
viste le precarie condizioni nelle quali versava la cappella
titolata ai
martiri
Lorenzo e Giobbe,
provvide al restauro,
sopraelevando il tetto
e
costruendo le volte a crociera ancora oggi visibili.
Nel 1889
fu edificata
l’attuale recinzione
e negli anni sessanta del ventesimo secolo,
fu eseguita un’ultima tornata di lavori per merito di devoti.
Recentemente è stato ricostruito il tetto del locale sagrestia,
adiacente alla chiesa,
garantendone la conservazione.
La presenza del
esterno,
d’epoca indefinibile,
può forse voler significare
che questa chiesa
svolgeva anche una funzione
d’ospizio
per i pellegrini diretti a
Vercelli.
Ad onor del vero,
bisogna segnalare che il
Prof. G.D. Serra,
documenta l’esistenza di un ramo di
Via Francigena
transitante per
Mazzè,
ma questo transito
valicava la
Dora,
sul ponte nei pressi della
circa cinquecento metri a nord.
Per avvalorare questa ipotesi,
bisognerebbe ammettere
che la strada
tardo romana
all’epoca della costruzione della cappella,
fosse ancora in qualche modo in funzione,
ipotesi per il momento
non assolutamente verificabile
e che se vera,
sposterebbe ancora indietro nel tempo,
la nascita della
In conclusione è il caso di segnalare
che nei secoli
XVIII e XIX
il tempio è stato adibito,
indubbiamente
per merito della sua
posizione decentrata,
a
lazzaretto
per i malati di
pellagra
e poi
di
colera.
A tal epoca risalgono i due piccoli locali a servizi,
ricavati al fondo della sagrestia.
Fortunatamente la chiesa
gode ancora delle attenzioni di un buon numero di devoti,
la maggior parte residenti a
Casale,
i quali,
con continue opere di manutenzione
ne impediscono
il degrado totale
e la rovina completa,
la qual cosa priverebbe
Mazzè
della sua memoria più antica.
Barengo Livio
Novembre 2004
Ipotesi
Sulle scoperte archeologiche,
venute alla luce nei pressi della
Chi percorre la
strada statale 595 per Villareggia
proveniente da Caluso,
passato l’abitato di Mazzè,
si ritrova a dover scendere nel profondo vallone scavato dalla Dora,
quindi giunto al fondo e passato il fiume,
risalire il versante opposto
per tornare allo stesso livello abbandonato in precedenza.
Generalmente anche il viaggiatore più distratto,
non può far a meno di notare alla fine della discesa,
una
di poche pretese
poco discosta dalla strada.
La cappella,
salvo il fatto
di essere situata in aperta campagna,
non ha nulla d’eccezionale
ed un eventuale visitatore
sarebbe attratto sicuramente più dall’amenità del luogo,
che dalle caratteristiche della costruzione.
Forse a causa dei racconti
che testimoniano
del suo uso come
lazzaretto,
questa chiesa
ha sempre avuto
un alone di mistero,
tant’è che gli abitanti del circondario
le attribuiscono delle vicende inverosimili,
tralasciando forse considerazioni sicuramente più interessanti.
Altre notizie recitano
che il modesto tempio,
titolato ai
santi
Lorenzo e Giobbe,
fosse un tempo
la parrocchiale
del paese antico,
del quale si è completamente perso il ricordo,
ma di ciò,
salvo uno scritto del
XIV secolo,
non si è mai avuto prova.
Nessuno conosce l’epoca nella quale la chiesa fu fondata,
che però stranamente conta ancora oggi dei devoti,
tant’è che il
parroco di Mazzè
vi officia la messa
nella ricorrenza del
martire
Lorenzo,
alla presenza di un discreto numero di fedeli.
Al pari di tutti gli abitanti del luogo,
anche io sono sempre stato incuriosito da questo strano posto,
e quando ne ho avuto la possibilità,
mi sono ingegnato a ricercare notizie sulla sua origine.
Purtroppo la documentazione raccolta è modesta,
mentre un recente sopralluogo
ha prodotto tali sorprese,
da lasciar intravedere
una data di fondazione più antica
di quanto si poteva supporre.
Come ho detto,
le ricerche archivistiche
sono state avare di notizie,
difatti si appura unicamente che sino
all’anno
1349,
la chiesa dei santi Lorenzo e Giobbe
era accudita da un rettore
e sede di una parrocchia,
poi accorpata con quella del
martire
Gervasio.
Oltre,
si può legittimamente dedurre che,
dopo l’abbandono del parroco,
il tempio fu probabilmente adibito a
romitaggio
e poi fu usato come
lazzaretto,
subendo un importante restauro
alla fine del XVIII secolo,
mentre in quello successivo
fu edificata la recinzione in mattoni pieni
che delimita il terreno di pertinenza.
Altre indicazioni sull’epoca di fondazione
si ricavano dall’orientamento
est -ovest
della chiesa,
sicuro indizio d’antichità,
mentre per quanto concerne la struttura dell’edificio,
in gran parte
con
è stata troppo snaturata nel corso del restauro,
per fornire delle tracce utili sull’epoca di costruzione.
Qualche altra considerazione si può fare
antistante la cappella,
forse testimonianza
di un transito di pellegrini,
ma anche in questo caso si potrebbe trattare della riedificazione di una struttura più antica
di difficile datazione.
Da rimarcare invece
il ritrovamento,
infissa nel pavimento della chiesa,
di una
attribuibile al II secolo d. C.,
nonché l’esistenza
all’esterno
di muri di fondazione
risalenti allo steso periodo,
testimonianze certe che il sito era già abitato nell’antichità.
Fortunatamente
nella primavera del 2004,
durante dei lavori di ripristino del tetto della sacrestia,
forse un tempo
ricovero dei romiti,
alcuni operai sono saliti sul tetto del tempio,
notando nel bosco a ponente dell’edificio,
una struttura lineare normalmente nascosta dal fitto fogliame.
Incuriosito e non riuscendo a fornire una spiegazione coerente a quanto visto dai suoi dipendenti,
l’impresario incaricato dei lavori,
conoscendo le mie inclinazioni,
si è premurato di avvertirmi,
al che ho provveduto per un sopralluogo.
Come potrà costatare chi vorrà avventurarsi sul posto,
la chiesetta è costruita su
di un piccolo poggio
sovrastante la pianura alluvionale,
ultima propaggine
di una sorta di promontorio
che origina dalla scarpata
che scende verso la Dora.
Il sito,
ampio circa sette giornate piemontesi,
è sempre stato un
beneficio della Chiesa
e condotto per gran parte a bosco,
fornendo ancora oggi legna da ardere
al parroco di Mazzè.
Nel corso della visita,
eseguita in collaborazione con un gruppo di volontari composto da
Fogliatti Mario, Gelormini Elio e Lusso Antonio
e con il fattivo supporto di
Anna Actis Caporale,
la struttura scorta dai muratori
si è rivelata essere la
fondazione di un muro a sacco,
con andamento
est ovest,
largo tre piedi
(circa novanta centimetri).
Sfoltiti i rovi,
si è costatato che
questo muro
risale il promontorio
per circa quaranta metri,
quasi argine di un contiguo piano inclinato in terra battuta
mediamente largo a sua volta una quarantina di piedi,
interrotto alla sommità da un fosso d’irrigazione
scavato nei primi decenni del secolo scorso.
Un’osservazione più attenta
rivelava
spezzoni di laterizi,
sicuramente romani,
inseriti intenzionalmente
tra le pietre di fondazione;
addirittura si ritrovava,
oltre ad un
ciottolo inciso,
un mattone quasi integro,
nel quale
l’antico fornaciaio
aveva impresso nell’argilla l’impronta della mano destra,
forse per favorirne l’uso una volta cotto.
Successivamente
si chiariva che il muro a sacco
proseguiva ben oltre il fosso e che l’area interessata terminava alla base della scarpata distante un centinaio di metri, qui una trincea semiriempita di terriccio
impediva l’accesso.
si procedeva quindi alla pulizia del piano inclinato, senza ottenere però risultati.
Un altra scarpata
delimitante il promontorio
a notte,
con del pietrame franato alla sua base,
costituivano quasi sicuramente i resti di un
muro a secco
corrente anticamente sul crinale della voragine,
ma anche in questo caso,
salvo costatare la presenza episodica
di mattoni,
le ricerche non ottenevano risultati significativi.
Recentemente,
all’estremo limite di quest’ultima scarpata,
è venuto alla luce il basamento di una struttura collassata,
forse i resti di una torre quadrangolare avente 12 piedi di lato (Mt. 3,60 circa),
Considerata la morfologia del territorio
e la tipologia delle strutture rinvenute,
credo sia giustificato ipotizzare
che quanto ritrovato siano i resti
di un opera difensiva
d’epoca indefinita,
anche se le misure sia del muro
sia della presunta torre,
sono abbastanza significative.
Sull’epoca di costruzione,
considerata la presenza di spezzoni di
laterizi d’origine romana
e la mancanza di calce,
credo sia corretto presumere di essere in presenza di una
fortificazione alto medioevale,
periodo in cui erano ancora usate comunemente le dimensioni della tradizione antica,
ma la mancanza di materiali
costringeva a ripiegare
su cose più umili,
quali appunto le pietre e la creta.
Ritenuta valida questa tesi,
il passo seguente
è senz’altro quello di attribuire al sito
un’epoca precisa,
Ritorniamo ipoteticamente all’anno
773 d.c.,
quando
Carlo Magno,
re dei Franchi,
sollecitato dal
Papa,
decide di ripercorrere le orme del suo predecessore
Pipino
e di scendere in Italia
per liberarsi di
Desiderio,
re dei Longobardi
e sino a poco tempo prima,
suo suocero.
Raccontano le antiche cronache
che il re,
riunito l’esercito a
Ginevra,
ne affida metà a suo
zio Bernardo,
ordinando al congiunto
di valicare
il Gran San Bernardo
e scendere
in Italia
attraverso la valle d’Aosta,
mentre lui farà la stessa cosa
attraverso la
valle di Susa,
serrando i nemici in una sorta di tenaglia nella pianura piemontese.
Per merito del
Manzoni
le gesta di questa guerra
sono universalmente note:
le chiuse
che sbarrano
la valle segusina
sono superate dai
Franchi
per il tradimento di un giullare,
il re Longobardo sconfitto
deve rinchiudersi in
Pavia,
dove dopo un lungo assedio, si arrende a
Carlo,
mentre suo figlio
Adelchi,
nella speranza di riprendersi il regno,
ripara a Bisanzio.
Sin qui tutti i manuali di Storia
concordano,
ma salvo rare monografie,
i testi tacciono
su una questione
che per noi
ha la massima importanza:
cosa fece l’esercito comandato da
Bernardo,
dove andarono
questi Franchi
dopo essere scesi lungo
la valle d’Aosta,
parteciparono o no
alla campagna contro
i Longobardi?
A chiarire la questione,
in nostro soccorso giunge tal
Jacopo da Acqui,
frate e contestato storiografo
del tardo medioevo,
il quale in una cronaca della guerra
condotta da
Carlo
contro i longobardi di Desiderio,
lascia intravedere una vicenda ben diversa da quella comunemente accettata.
In questo scritto si narra che
Bernardo,
superato
Bard,
piazzaforte gia in precedenza in mano degli invasori,
e presa
Ivrea,
si arrestò davanti alle chiuse predisposte dai Longobardi
dalle parti del
Lago di Viverone,
forse create sulla falsariga di altre più antiche,
costruite dai Bizantini
durante la loro breve permanenza
in Canavese.
Sulle rive di questo specchio d’acqua,
si svolsero varie aspre battaglie
che impedirono
ai due eserciti invasori di ricongiungersi,
finché dopo un ultimo sanguinoso sforzo,
i Franchi
superarono finalmente
il Sapel da Mur
e dilagarono nella pianura vercellese.
Fra Jacopo
afferma
che in occasione dell’ultima battaglia
ci fu un intervento diretto di
Carlo,
ma è più probabile ché
i Longobardi
dovettero ritirarsi
perché i Franchi,
sfondate le chiuse della valle di Susa,
avevano armai la strada aperta verso est,
rendendo vana ogni altra resistenza lungo la Dora.
E’ opinione comune degli autori che si sono cimentati su questo controverso argomento,
quali il Rondolino,
il Ramasco
e la Emanuela Mollo,
anche se quest’ultima
nega la veridicità della cronaca di
fra Jacopo,
ritenendola completamente frutto di fantasia,
che se le
chiuse Longobarde tra la Dora e la Serra
sono realmente esistite,
il loro scopo era di bloccare
il passaggio ad un esercito
proveniente dalla valle d’Aosta,
nel presupposto che
il fiume fosse
unicamente superabile
ad
Ivrea.
Orbene, come sanno gli abitanti dei paesi rivieraschi,
questo non è vero,
perché a
Mazzè
esiste un guado
che permette di valicare il fiume,
guado che quindi andava sicuramente presidiato,
se non si voleva che eventuali invasori,
avessero la possibilità di attaccare
i difensori delle chiuse di
Viverone
alle spalle,
rendendo vana la loro costruzione.
A questo punto
penso sia ormai chiaro al lettore dove voglia andare a parare il ragionamento,
perché la posizione del sito ritrovato
si adatta perfettamente allo scopo,
è sostenibile che
le rovine ritrovate
non siano altro che
quanto resta
di una fortificazione
Longobarda.
San Lorenzo
è indubbiamente il luogo
che meglio
si addiceva per insediare un campo trincerato,
avente lo scopo di contrastare
i Franchi
in cerca di un
guado sulla Dora,
distante poche centinaia di metri,
quindi se quanto sopra avrà delle conferme,
è ipotizzabile che anche
la chiesetta
sia stata fondata
nello stesso periodo,
il che ci permetterebbe
di retrocederne
la costruzione all’VIII secolo d.c.,
aggiungendo un altro tassello alla storia del paese.
Settembre 2004 Barengo Livio
di cui si propone la
è stato ritrovato inserito nel muro a sacco
descritto nell’articolo,
ed è sicuramente più antico del manufatto stesso.
Come spesso accade,
si tratta di materiale riutilizzato perché già sul posto
oppure comodamente trasportabile.
Il ciottolo con inciso una croce in genere veniva utilizzato come campione per una misura di peso.