

Edmondo De Amicis
Garrone,
ovvero.........Severino Delgrosso

"Quanto più lo conosco,
tanto più gli voglio bene,
e così segue a tutti gli altri,
fuorchè ai prepotenti,
che con lui non se la dicono,
perché egli non lascia far prepotenze.
Ogni volta che uno grande alza la mano su di uno piccolo,
il piccolo grida:
e il grande non
picchia più.
Suo padre è macchinista della strada ferrata;
egli
cominciò tardi le scuole
perché fu ammalato due anni.
E' il più
alto e il più forte della classe,
alza un banco con una mano, mangia
sempre, è buono."
Siamo a Torino nel lontano 1866.
Edmondo De Amicis
rende
un grosso servizio
alla patria appena costituita
ma lungi da essere unificata
nei suoi territori e nei suoi cittadini.
scrive un racconto-diario
di un bambino di
terza elementare.
Cuore
un libro che ha avuto lungo successo,
tradotto in tutte
le principali lingue del mondo
non esente da critiche
specie per il contenuto
ideologico,
giudicato troppo celebrativo dei valori patriottici e sociali
propagandati
dall'Italia umbertina,
e per molti
rappresentante
per più generazioni
una sorta di
"codice della morale laica"
post risorgimentale.
"Pietro Delgrosso,
è un uomo dotato di un'
intelligenza e di una lungimiranza non comuni,
di un intuito raro e di un fiuto
negli affari come pochi altri nel suo tempo.
Astuto ma non arrogante,
calcolatore
ma non profittatore,
sagace e dai modi signorili,
sapeva contemperare il suo
carattere forte, battagliero,
con altre doti che gli accattivavano il rispetto
e il favore di molti.
Una persona, insomma,
che con poche note personali
sapeva
non stonare,
una figura che da sola sapeva riempire un ambiente
come era allora
Mazzè."
Così
Francesco Mondino
nel suo libro
"Mazzè memorie della mia terra"
tracciando una serie di profili di personaggi
mazzediesi,
descrive
Pietro Delgrosso.
Pietro Delgrosso
nacque nel
1810.
Si era unito in matrimonio
a diciott'anni con
Felicita Basco
dalla quale ebbe ben
dodici figli,
uno dei
quali,
frequentò la classe descritta dal
…..Era proprio lui,
"sabato mattina diede un soldo a uno della prima superiore,
che piangeva in mezzo alla strada,
perché gli avevan preso il suo,
e
non poteva più comprare il quaderno."
E ancora
" …..
Sa bene l'aritmetica.
Porta i libri a castellina,
legati con una cigna di cuoio
rosso…..
qualunque cosa gli domandino,
matita, gomma, carta, temperino,
impresta o da tutto;
e non parla e non ride in iscuola:
se ne sta sempre immobile
nel banco
troppo stretto per lui,
con la schiena arrotondata
e il testone dentro
le spalle;
e quando lo guardo,
mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi
come
per dirmi:
" Ebbene, Enrico, siamo amici?….. "
trascorse una vita
che risultò singolarmente essere
quasi una pagina d'appendice del libro
Cuore.
Fedele per
tutta la vita al personaggio buono,
altruista e caritatevole descritto dal
De
Amicis,
si laureò in medicina a Torino
e già titolare di un avviato
studio medico,
a seguito di una delusione amorosa,
si ritirò a
dove svolse l'attività di medico condotto per quarant'anni
guadagnandosi
la stima e l'affetto di tutta la popolazione.
I
Delgrosso
hanno lasciato alla comunità mazzediese
ora destinato a
Centro per Anziani
e l'asilo infantile.
Proprio come da
"libro Cuore"
Mazzè
ha intitolato una
a
E' la via che conduce all'edificio che ospita le scuole elementari.
Tutto questo ci riferì

Giorgio Delgrosso, il principe del foro che amava le sfide impossibili
L' uomo dai capelli argentati, un gigante con il viso antico e bello come quello di un centurione romano, sollevò per l' ultima volta sulla spalla la toga, scuotendo i cordoni luccicanti del fregio. Poi, guardando fisso negli occhi gli otto giudici della corte d' Assise d' appello, pronunciò quasi gridandola la frase finale di un' arringa durata nove ore e due udienze: «A voi, che siete otto galantuomini, io affido l' innocenza di Franca Ballerini». E alle 16,38 di quel 21 dicembre 1982, gli «otto galantuomini» sarebbero tornati sul pretorio per regalare a Franca Ballerini la libertà perpetua e per dire a lui, all' avvocato Giorgio Delgrosso, che aveva vinto per sempre. Che aveva afferrato per i capelli la «vedova dagli occhi di ghiaccio» e che, con la sua intelligenza e la sua eleganza, con quell' arringa appassionata e possente come il coro di una tragedia greca, l' aveva strappata all' ergastolo con la formula ad un tempo ambigua e decisiva che allora si chiamava «insufficienza di prove». Erano anni così, quando i patteggiamenti, i riti abbreviati e gli sconti di pena non avevano ancora assopito i processi, le procure e la cronaca giudiziaria. Quando Delgrosso poteva recitare come un «mattatore» quel suo elogio ai «giudici galantuomini» o, nel processo alle Brigate Rosse, il presidente Barbaro si rivolgeva compito a Curcio: «Imputato, vuole cortesemente procedere alla lettura del comunicato?» e a sua volta, dopo un complimento al pm Moschella, si sentiva replicare: «Non lodi me, lodi la toga». Anni nei quali fare l' avvocato significava conoscere il diritto e l' etica, più che gli espedienti degli azzeccagarbugli, ma anche avere la tempra e i modi del «protagonista»; di chi sapeva combattere i magistrati non per imbrogliarli o delegittimarli, ma per strappare la salvezza dei propri clienti. E dove la toga e l' uomo che la indossava contavano ancora di più dell' imputato e di tutto ciò che quell' imputato poteva dire o fare. Con una corte di praticanti e assistenti che lo circondavano di attenzioni e ammirazione secondo i canoni di un maschilismo militaresco che allora dominava ancora la professione forense e che gli aveva strappato più di un sorriso soddisfatto quando, in quel piccolo plotone, era comparso anche il figlio Andrea. Giorgio Delgrosso è stato tutto questo: «principe del foro» quanti altri mai a Torino, figura antica e ormai estinta, elegante intellettuale, ma anche combattente belvino quando l' arringa diventava l' ultima spiaggia. Uomo da corte d' Assise, ma anche per processi fatti di carte e di discussioni giuridiche, per molti anni difensore della famiglia Agnelli e della Fiat, un incarico che poi gli era stato lentamente eroso da altri studi legali. Nessuno, però, era mai riuscito a togliergli quel primato che tutti erano, prima o poi, costretti a riconoscergli. E che diventò eterno quel giorno del dicembre 1982, quando il «principe del foro» legò per sempre il suo prestigio all' ultimo grande processo torinese.
ETTORE BOFFANO
da Archivio La Repubblica 30 aprile 2006
Il Memo con l'avvocato Giorgio Delgrosso.

Grazie Garrone….. Grazie Delgrosso

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