L'allagamento
facilitato dalla già avvenuta sommersione delle risaie,
iniziò
il mattino del 25 aprile sotto la direzione dell'Ing Noè e durò
fino al 29,
nel
territorio compreso tra Crescentino e San Germano.
Gli Austriaci, inseguiti e raggiunti dai Piemontesi, furono battuti a Palestro il 30 maggio 1859
e la musa popolare celebrava l'avvenimento con la canzone:
“EI Giulay l’à turnà ‘n dré cun la pauta tacà i pé”.
Addì 22 aprile 1859
Mazzè , feudo e vedetta
canavesana
durante la II guerra
d'indipendenza.
Tratto dal libro
"Mazzè memorie della mia terra"
di Francesco Mondino
Anno 1859
L'Austria
decisa a stroncare le
"provocazioni"
dei
Piemontesi
dopo una serrata
campagna diplomatica
aveva inviato a
l'ultimatum
di disarmare entro tre giorni
latori
il barone Kellesberg
e
il
conte Ceschi di Santa Croce
inviati straordinari.
col quale il
Piemonte
aveva stretto un patto di alleanza politica e
militare
a
Plombières
il
21-7-1858
considerò
l'intimazione austriaca
come un'aggressione
e ordinò alle sue truppe
di passare le Alpi.
che aveva pronunciato il grande discorso alla
Corona
affermando
di voler mutare
il regno di Sardegna
in regno d'Italia
decretò
che il
suo regno fosse pronto a marciare
contro gli austriaci
che da tempo stavano
ammassando truppe ai nostri confini
con l'intenzione
di sfondare fino alla
capitale
(Torino).
L'esercito piemontese
aspettando
l'arrivo dei francesi
scelse la sua posizione difensiva sulla riva destra del
Po.
L'imperatore Napoleone III
a sua volta
ordinò
di dividere il suo
esercito
in due grossi blocchi:
uno venne trasportato per mare a
Genova
sotto
il comando del maresciallo Baraguay d'Hilliers
l'altro
si portò in
Piemonte
giungendo a
Susa
attraverso i colli del
Moncenisio
e del
Monginevro
agli ordini
del maresciallo comandante
Canrobert Certain.
Il 23 aprile, la Camera dei
Deputati aveva conferito al Re i pieni poteri. Il 26, il ministro Cavour aveva
consegnato al barone Kellesberg, la risposta negativa all'ultimatum, e il Re
aveva nominato suo cugino, il Principe di Carignano, luogotenente del regno,
durante la guerra. Il 27, un proclama che era suonato come uno squillo di tromba,
annunziava che l'esercito era pronto a battersi contro l'Austria, che aveva
osato minacciare l'indipendenza e la dignità della patria. "I Francesi-diceva
il proclama-saranno nostri compagni anche in questa guerra, giusta e santa,
il suo grido sarà: Indipendenza d'Italia".
Vittorio Emanuele II partì
quindi da Torino e si avviò al campo. Occorreva impostare con la massima
tempestività una difesa capace di contenere l'irruenza del nemico, numericamente
superiore.
Intanto Firenze, al grido di
allarme, non era rimasta inerte. Il 24 aprile, per mezzo del suo ministro plenipotenziario,
il Boncompagni, aveva chiesto una alleanza offensiva e difensiva della Toscana
durante la guerra, che si preannunciava imminente.
Il Granduca Leopoldo II aveva
risposto negativamente, preferendo mantenersi in una posizione neutrale. Cosimo
Ridolfi, già precettore del principe ereditario, aveva allora scritto
al Granduca (27 aprile) una lunga lettera nella quale gli palesava il proposito
dei Toscani di prendere parte alla guerra sotto la bandiera italiana. Il popolo
dimostrava pubblicamente in piazza Barbano a favore della guerra, a fianco dei
Piemontesi e dei Francesi, salutando con gioia ed entusiasmo l'indipendenza
d'Italia. Il Granduca abbandonò la Toscana con la famiglia e il Comune
di Firenze, conferì provvisoriamente il governo della cosa pubblica ad
Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Melenchini e Alessandro Danzini, che inviarono subito
una petizione a Re Vittorio, invitandolo ad assumere la dittatura del Granducato.
Il governo piemontese nominò
il Boncompagni commissario straordinario e il generale Girolamo Ulloa comandante
in capo dell'esercito toscano. Venne anche composta una consulta di governo
sotto la presidenza del venerando Gino Capponi.
Gli Austriaci, nel frattempo,
avevano predisposto i propri piani per avanzare ed attaccare le truppe piemontesi,
che si erano ammassate
tra Alessandria e Casale, sulla riva destra del Po. Una divisione piemontese
era stata posta sulla riva sinistra della Dora Baltea, per costituire l'ultimo
baluardo difensivo e allontanare il pericolo micidiale dell'invasione.
Il 29 aprile, l'esercito nemico,
agli ordini del generale Giulay, passò il Ticino
a Pavia, a Bereguardo, a Vigevano e a Buffalora e avanzò fin nei
pressi di Chivasso, nella speranza di battere
l'esercito piemontese, prima che giungessero gli aiuti dei Francesi.
Ma trovò un ostacolo
inatteso nelle misure adottate dai Piemontesi, che, nel frattempo avevano attuato
alcuni accorgimenti disposti qualche anno prima da Alessandro La Marmora e dettati
con ritmo telegrafico, in quel frangente, dal fratello Alfonso.
Eccone alcuni:
-mandar l'equipaggio
dei ponti per acqua (del Po) a Chivasso;
-far venire per strada
ferrata i zappatori, far fortificare la linea della
Dora(Baltea), messo i posti a Massè, Moncrivello, e Caluso;
-combinare con gli
ingegneri civili il modo d'allagare tutte le risaie fra Cigliano,
Saluzzola, e Saluggia;
-requisir tutti i
cavalli disponibili e darli all'artiglieria, perchè la batteria parta
almeno con 6 pezzi;
-il quartiere generale
a Rondissone.
La Dora Baltea apparve così
la più valida e munita linea di difesa, mentre le campagne vercellesi
furono destinate ad essere trasformate in un grande lago artificiale.
Il piano e l'esecuzione di
questo allagamento furono studiati da un brillante ufficiale del Genio militare
italiano, Federico Menabrea, una figura di patriota nobile e ingegnoso , al
quale, per merito di questa strategica difesa, sarà più tardi
conferita la corona di Marchese di Valdora.
A ispezionare e a verificare
le opere di questa difesa approntata dal Menabrea, conversero su questa vetta
canavesana, Re
Vittorio Emanuele II con tutti i nostri migliori comandanti, La Marmora,
Della Rocca, Cialdini, Menabrea, Pastore, Luserna D'Angrogna, Righini di San
Giorgio, e molti altri. Da parte francese giungeva Niel e il maresciallo Canrobert
con il suo stato maggiore, latore di una lettera dell'Imperatore al nostro Re,
nelle quale così si esprimeva:
"J'autorise le Marèchal
Canrobert a concourir avec les truppes de V.M. à la dèfense de
la ligne de la Dora Baltea, s'il juge la position offrant des chances serieuses
de rèsistance".
Vittorio Emanuele II consultò
immediatamente Canrobert, Niel e il generale del genio francese Frossard, insieme
ai nostri La Marmora, Della Rocca, Cialdini, Menabrea, e Pastore. La divisione
del generale Cialdini, che era appostata sulla Dora, doveva tenersi pronta,
in caso di necessità, ad unirsi alle altre appostate sulla destra del
Po.
Il corteo militare, compostosi
alla stazione di Caluso, dove era sceso proveniente da Torino, il Maresciallo
Canrobert, si avviò al Castello di Mazzè, tra l'esultanza delle
truppe e della popolazione che era accorsa per salutare Vittorio Emanuele II.
Salì quindi, sulla vetta mazzediese, divenuta osservatorio per le operazioni
di allagamento della campagna vercellese, a contemplare il piano che da un momento
all'altro si sarebbe tramutato in mortale trappola per gli invasori.
"Il gran Re si appressa
all'orlo della specola- ci descrive il senatore Faldella- e piglia una grande
fiatata e coglie una grande occhiata di questo
magnifico panorama orientale....Vittorione
è circondato da La Marmora, Canrobert, Niel, Frossard....Freme insieme
una folta siepe di ufficiali. Discutono: allungano le braccia; allargano le
mani, appuntano le dita; si ergono sui cavalli; fissano gli occhi, si adattano
i binocoli per cogliere e dilatare i più lontani punti del panorama.
Re Vittorio, oltre che dai presenti, si sente assiepato, affollato dagli spiriti
della storia, dalle indicazione del Destino, o meglio dalle promesse della Provvidenza.
Una sensazione di ombre da Re Arduino, gli insolca l'animo di brividi luminosi.
Egli tende più acuto lo sguardo verso il Lombardo Veneto, sua santa preda
per la libertà".
"Ma nitriscono più
impazienti i cavalli legati ai platani; e giunge il messaggio che gli Austriaci
traboccano dal Ticino....".
E' l'ora della riscossa.
Il Comando della Brigata Savona,
che aveva preso dimora nel Castello di Mazzè, predispone gli ordini di
attacco.
-Quanti sono gli Austriaci?
-Centocinquanta, duecentomila.
-E quanti siete Voi?
I nostri si contano.
Si narra che Enrico Cialdini
contraddicesse, a proposito del numero dei soldati nostri e degli Austriaci,
Canrobert e, più ancora, Frossard. Vittorio Emanuele II, che al suo coraggio
univa l'occhio della lince e una notevole sagacia, intervenne per sedare la
disputa, dando ragione ai Francesi per non pregiudicare la preziosa alleanza.
E guardando con sicurezza la
linea della Dora e l'agro vercellese, sospirò innalzando una preghiera
allo Spirito delle Acque.
Lo stato delle forze nazionali
della difesa della Dora Baltea, fornito dal pittore di storia militare Quinto
Celli, risultò essere di 18.600 fanti, 3320 cavalli da battaglia e 200
cannoni tra difesa stabile e difesa mobile, pronto a muoversi alla carica, quando
dalla vedetta mazzediese fosse stato dato il segnale.
Furono traforate le sponde
dei canali, si ruppero le strade , la campagna vercellese venne trasformata
in un lago strategico che impantanò gli invasori stranieri.
Vittorio Emanuele II e il maresciallo
Canrobert, coi rispettivi stati maggiori, ammirarono dal
Castello di Mazzè il vasto piano che si protendeva loro davanti,
assaporando nei battiti del cuore, in palpitante silenzio, l'emozione e l'ansia
patriottica per l'esito di quella operazione che avrebbe arrestato la tracotante
minaccia degli Austriaci.
Poi, il regale corteo scese
da Mazzè, tra una folla esultante, per avviarsi lungo la strada ferrata
Novara-Torino, passò per Rondissone, fortemente presidiata, giunse alla
stazione di Torrazza di Verolengo e ritornò a Torino.
Lungo il percorso, le truppe
piemontesi, scaglionate da Mazzè a Calciavacca, esultavano festose il
passaggio del Re, e fraternizzavano con i soldati francesi.
Il bollettino di guerra del
30 aprile annunciava: "Il Re andò ieri sulla Dora (Baltea) in compagnia
del maresciallo Canrobert e del generale Niel. Inutile dire come fosse accolto
e festeggiato dalle truppe".
Il 22 maggio trovò morte
gloriosa in combattimento, a Borgo Vercelli, il capitano Edoardo Brunetta d'Usseaux.
La storica scena del Castello
di Mazzè, resterà sempre un avvenimento di grande importanza nella
storia della seconda guerra d'indipendenza.
Così, ancora, il libro
di scuola "L'umana conquista" di Carlo Negro, Editore Paravia, con
tono più distaccato, descrive in poche righe la seconda guerra d'indipendenza
e ricorda anche l'allagamento descritto da Francesco Mondino nel suo libro:
"Mazzè memorie della mia terra".
La seconda guerra d'indipendenza
(1859)
Così in quella fine
del mese di aprile, mentre le cancellerie europee si consultavano affannosamente
per evitare una guerra di imprevedibili proporzioni, il generale austriaco Gyulai
passò il Ticino e aggredì il Regno di Sardegna.
Era il 29 aprile; l'austriaco
aveva già perso tre giorni; altri ne perse in strane manovre del suo
esercito, dal nord al sud del fronte, addentrandosi fin verso Ivrea,
non lontano da Torino, tornando indietro, cercando di impedire il congiungimento
delle forze piemontesi e francesi, tentando di indovinare che cosa avrebbero
fatto i soldati di Napoleone, che intanto giungevano per mare e per terra, via
Moncenisio, al ritmo di diecimila al giorno.
Nell'attesa i Piemontesi, schierati
su di una linea difensiva, avevano allagato, con un piano predisposto da tempo,
le vaste risaie tra i fiumi Sesia
e Dora Baltea.
Ora si trovano 160.000 Austriaci
contro 80.000 Piemontesi comandati dal re Vittorio
Emanuele II e 110.000 Francesi, sotto il comando personale di Napoleone
III.
Gyulai finalmente decise che
il nemico avrebbe tentato di sfondare a sud e andò ad incontrarlo. Allora
i Francesi presero il treno (fu proprio così) verso il nord e sfondarono
dall'altra parte.
Intanto i Piemontesi sostennero
due scontri di scarsa importanza, a Mombello il 20 maggio ed a
Palestro il 31: in questa occasione il re Vittorio si mostrò tanto
valoroso che un reggimento di zuavi francesi, ammirato, lo nominò sul
campo suo "caporale".
Passato il Ticino, gli alleati
si scontrarono col nemico, accorso in forze, il 4 giugno, a Magenta:
fu una battaglia sanguinosa, che si risolse in una vittoria in seguito all'intervento
tempestivo delle truppe del generale francese Mac Mahon. Ma sul campo restarono
10.000 uomini dalle due parti.
Ora era aperta la via di Milano:
Vittorio e Napoleone III vi fecero un
ingresso trionfale, acclamati dalla popolazione festante, l'8 giugno. Il
nemico si era ritirato precipitosamente verso
il Mincio, per attestarsi nel
famoso quadrilatero.
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